Si può insegnare lo stile?
Abbiamo assodato che un docente non può prescindere dall'insegnamento di un italiano, prima di tutto, corretto. Il problema che si pone adesso è come passare al livello successivo: insegnare una lingua originale, diversa da quella degli altri, efficace e, perché no, bella. In una parola, insegnare lo stile: nei nostri programmi, uno sconosciuto!
Lo spunto di riflessione parte da due input incrociati: un ricordo che affonda nei tempi confusi e rocamboleschi della SSIS (Scuola di
Specializzazione Insegnamento nella Secondaria) e una lettura che, da sempre,
mi galvanizza: Esercizi di stile (Exercises de style) di Raymond Queneau,
traduzione italiana di Umberto Eco (una bella sfida per lui!), ovvero la
riscrittura in 99 varianti stilistiche di un banalissimo episodio di viaggio in
tram nell’ora di punta.
Il problema
Quando correggevo un compito di Italiano (che fosse il vecchio tema o un saggio breve/articolo di
giornale, pagine di diario o lettera a qualcuno) una voce della griglia di
valutazione adottata dal Dipartimento di Lettere del Liceo in cui insegnavo era “originalità della rielaborazione personale”. Bisognava intendere l'originalità sia
in merito al taglio utilizzato nella trattazione dell’argomento, sia in
relazione allo stile di scrittura, un'entità, invero, assai sfuggente che, però, ci dava prova della voce peculiare di ciascun
alunno, della sua impronta caratteristica. A dirla tutta, il limite di questo
indicatore era nella mia incapacità di spiegare ai ragazzi quale fosse l’optimum senza virare nel giudizio
soggettivo. Perché, alla fine, il messaggio che passava era: “Prof, a lei
non piace come scrivo” e quindi che
fosse una questione di gusti personali.
Ovviamente, mi ritrovavo ad
assegnare punti nella griglia quando intravedevo uno stile individuale definito o un
abbozzo di ricerca in tal senso. Un guizzo. Che però non comprometteva la comprensione del testo, anzi la migliorava.
La domanda che spesso mi sono posta
di fronte a certi elaborati privi di errori, ma nel complesso un po’ grigi,
opachi, corretti contenutisticamente, pertinenti, magari anche ricchi di idee, eppure
estremamente noiosi è: “Si può insegnare a un alunno lo stile? Quale? E come?”
Se il concetto di registro[1] è
entrato nelle nostre attività didattiche già da qualche anno e i libri di testo
in adozione (che siano i fascicoli destinati alla didattica della scrittura in
uso nel triennio e finalizzati alla preparazione della prima prova scritta
all’Esame di Stato, che sia la stessa antologia in uso nella Secondaria di
Primo Grado e nel biennio della Secondaria di Secondo, che siano appendici al
manuale di Grammatica) se ne occupano diffusamente con un corredo più o meno
interessante di esercizi, sullo stile,
invece, si dice e si fa ben poco.
Perché sembra un problema da scuola di scrittura, un problema per aspiranti
scrittori, non per studenti in età dell’obbligo.
Eppure, mi ci metto di picca.
Se dobbiamo valutare l’originalità di un
compito (lo dice la griglia!), allora dobbiamo insegnare il paradosso - e cioè
come essere originali.
Lo stile affonda le sue radici nella soggettività. È il modo in cui il
parlante si serve dello strumento linguistico, è espressione di una personalità
che si manifesta nell'accostamento delle parole tra loro, nella
strutturazione delle frasi, nella scelta di un vocabolo di fronte alla rosa dei
possibili. Ogni uomo teoricamente dovrebbe avere un suo stile personale (e
questo è vero anche nel parlato) ma molto spesso ciò non si vede. La lingua,
talvolta, viene utilizzata in modo standard, senza alcun effetto marcato, senza
scarti rispettando il cosiddetto ordine normale della frase “SOGGETTO,
PREDICATO, COMPLEMENTO OGGETTO, ESPANSIONI ULTERIORI” senza figure retoriche,
utilizzando vocaboli medi (non curvato verso il basso né verso l’alto) con
significato univoco. È questa la lingua neutra che ci aspettiamo, per esempio,
da una relazione scientifica, da un inventario. Agli antipodi si colloca,
invece, ciò che ci aspettiamo dalla lingua letteraria, poetica.
I nostri alunni più diligenti
quando imparano a scrivere e si esercitano nella produzione di testi dal
carattere personale, spesso, mancano di uno stile, perché lo stile è scarto,
deviazione dall’ordinario, e molti di loro non hanno ancora sviluppato una
personalità tale da eludere, a cuor leggero, la sequenza
soggetto-predicato-complemento rischiando magari di sbagliare. Per fare
emergere il proprio stile individuale, a un certo punto, ci vuole un atto di
coraggio, perché nella ricerca di una personalità linguistica si può peccare di
eccesso d’espressività, si può forzare troppo la sintassi e piombare negli
anacoluti, si può beccare un vocabolo musicalmente bellissimo, ma di fatto poco
attinente al senso da comunicare, si possono mescolare troppo arditamente
registri diversi e dissonanti, senza però essere Carlo Emilio Gadda, si possono
ricercare effetti retorici maldestri e quella che allo studente può
sembrare un’anafora, a giudizio del professore diventa una ripetizione cacofonica. E
allora, per molti, meglio la scelta di un non-stile. Un porto tranquillo.
Proposta didattica: riscritture e varianti stilistiche
La volpe e il corvo - Esopo (illustrazione) |
Interrogandomi
spesso su come insegnare ai ragazzi a cercare uno stile personale, ho trovato
ispirazione in un esercizio che sperimentai alla SSIS con i miei colleghi.
Vorrei riportarvi la bibliografia completa, ma non ce l’ho, perché non ci fu data. Ricordo solo che
l’iniziativa partì dal Prof. Sebastio dell’Università di Bari, un individuo mastodontico che ci
raccomandava sempre di entrare in classe con un libro sotto il braccio e non
con una rivista di moda o con la settimana enigmistica (...questione di stile,
appunto).
La proposta, che vi giro, si
rivolge agli studenti del secondo anno del Biennio (ma volendo, con opportune
semplificazioni si può adattare anche alla Terza Media). Lo scopo è riscrivere
un testo poco connotato stilisticamente imitando lo stile di più autori tra
loro molto diversi.
In primo luogo
si distribuisce agli alunni un testo non marcato, stile-zero. Va bene una
favola di Fedro o di Esopo, scelta fra le meno retoricamente agghindate. La si legge e
si commentano le caratteristiche della scrittura (ordine della frase, lunghezza
dei periodi, scelta dei vocaboli, presenza di aggettivi). Poi si propongono dei
modelli (autorevoli) di scrittura. Non si può non partire da Manzoni. Lo stile
manzoniano è sontuoso, pieno di armonia, ricco di aggettivazione: un concerto
di subordinate che, tuttavia, non percepiamo ridondanti. Leggiamo l’incipit
famoso e noto agli studenti Quel ramo del
lago di Como …quanto basta, perché se ne ascolti il ritmo. Lo analizziamo
insieme ai ragazzi individuandone le caratteristiche precipue. Rileggiamo uno o
più passi. Quindi invitiamo i ragazzi a riscrivere la favola con lo stile
manzoniano, magari procediamo insieme per il primo rigo, poi li lasciamo soli.
Dovrebbero disfarsi della paratassi, espandere alcuni concetti, aggiungere
dettagli, relative, esplicative e (utopia?) cercare un ritmo lento, modificare
alcuni vocaboli sostituendoli con sinonimi leggermente più aulici o poetici.
Lo step successivo sarà un shock stilistico
e temporale. Si utilizzerà un autore contemporaneo, scelto fra quelli più lontani
dallo stile manzoniano e abbastanza vicini alla lingua dei ragazzi (Stefano
Benni, Chiara Gamberale, Giuseppe Culicchia, Aldo Nove, Federico Moccia ecc.),
si leggeranno passi significativi (ipotassi, frasi ellittiche, gergo giovanile,
metafore che affondano nella cultura POP) e li si analizzeranno confrontandoli
con lo stile manzoniano, evidenziando le differenze. Quindi si procederà con la
nuova riscrittura della favola.
I risultati
saranno diversi. Li correggeremo tutti. A casa, a scuola, purché lo si faccia.
Il feed-back preciso è importante.
Nello step successivo il gioco con la lingua
si farà più ardito.
Si propone ai
ragazzi il libro di Queneau, Esercizi di
stile, spiegando che esso si basa sullo stesso meccanismo di riscrittura
stilistica che la classe ha appena sperimentato in due varianti (stile
manzoniano e stile anti-manzoniano). Se ne legge l’episodio principale e due o
tre varianti a caso. Si fa circolare il
libro fra gli alunni, assegnando a ciascuno la lettura ad alta voce di una
delle 99 varianti. Quindi si richiedono altre riscritture della favola di
partenza utilizzando come modello quelle di Queneau (riscrittura del brano con
soli dati olfattivi; riscrittura poetica; riscrittura con colori; riscrittura
con turpiloquio; riscrittura con tautogramma).
Le esperienze
svolte con gli alunni sono state, per quel che mi riguarda, decisamente più
stimolanti e costruttive di quella svolta con i colleghi della SSIS. Noi
eravamo prevenuti, bloccati da timidezza e ansia da prestazione, scettici,
convinti che il laboratorio di scrittura fosse una perdita di tempo,
presuntuosi e bla bla bla. Gli
alunni, invece, si mettono in gioco e (molti di loro) non hanno paura a
esercitare la propria creatività. Sono altresì convinti, più di noi adulti, che
saper scrivere non è (solo) una dote, ma una competenza da acquisire e
migliorare. E soprattutto non hanno deciso che della scrittura si possa fare a
meno.
Limiti
Questi esercizi
non producono spontaneamente uno stile personale nella scrittura degli alunni,
né capacità di imitare alla perfezione lo stile di un autore. Richiedono tempo.
Costanza. Servono però a parlare di stile, a spiegare che cos’è, a mettere a
fuoco un concetto difficile e spesso controverso anche per gli stessi linguisti
(perché non si può trovare una regolarità, quando si parla di stile, quindi
sfugge anche la teoria), promuovono una ricerca in tal senso, un impegno.
Se torno indietro
alla mia esperienza di studentessa ricordo nitidamente la lettura in classe di Se una notte d’inverno un viaggiatore.
La professoressa si fermava spesso a commentare alcune scelte di Calvino, per
esempio l’accumulazione (una caratteristica che tornava con frequenza). E poi,
al momento del compito in classe, ci diceva: “Ricordate le tecniche di Calvino,
che ci piacciono tanto? Provate a farle vostre”. E si raccoglieva l’input, più
o meno bene.
Imitando le voci
degli autori letti, pian piano alcuni di noi hanno maturato una voce propria,
col tempo sempre più definita.
[1] Sintetizzando all’osso
“adattare il modo di parlare, di scrivere, il livello espressivo alla
situazione comunicativa” da www.treccani.it
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