nottola

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Nottola di Minerva o gufo anti-sfiga? La Scolastica, nel suo bagaglio, se li porta entrambi.

venerdì 25 luglio 2014

La scuola e i libri per le vacanze

I pedagogisti sono scettici di fronte ai compiti per le vacanze. I genitori  si dividono equamente fra chi li richiede con perentorietà (quasi a cercare per i propri figli un'occupazione che li tenga impegnati quanto più a lungo possibile) e chi li demonizza in quanto causa di pessime vacanze e vincoli anche per gli adulti. 
Meglio allora una lista di libri: è più indolore. Perché un libro si può portare sotto l'ombrellone, non intralcia il relax del parentado e assicura al pargolo la sua buona dose di dovere quotidiano: insomma, una medicina da prescrivere. Pratica perché si somministra solo all'ammalato e non a tutta la sua famiglia. Efficace....? Dipende.
Le letture per le vacanze sembrano mettere d'accordo pedagogisti, insegnanti, genitori. 
Non così Paolo di Paolo (scrittore giornalista e critico letterario) su la Stampa col suo articolo "I libri per le vacanze. Come imparare a odiare i classici". 
Secondo il giornalista, assegnare classici per l'estate spingerebbe i ragazzi a odiarli, così si ricava anche nel titolo. Imporre la lettura come un dovere è un pessimo servizio che la scuola rende ai libri: in questo modo, infatti, si brucerebbero sul nascere tanti potenziali lettori spontanei. Insomma, la scuola qualunque cosa faccia, la fa sbagliando. 
Il canone ristretto che noi professori proponiamo sarebbe, inoltre, causa di quella patina grigiastra che si è depositata su alcuni romanzi di Calvino (la trilogia degli antenati, per esempio) o di Primo Levi (Se questo è un uomo, La tregua), assegnati frettolosamente e senza una spiegazione forte che faccia comprendere agli alunni quanto grandi (e perché) siano i classici. Di qui la necessità di rinnovare il canone e di avvicinare i ragazzi alla lettura di quelle opere soltanto DOPO aver spiegato il perché non se ne possa fare a meno. Lasciare intravedere la bellezza, la grandezza, senza rivelarla del tutto. Fornire una chiave di lettura, nella speranza che essi ne trovino altre e, magari, personali. 
Io, però, non demonizzo la scuola e le sue liste. 
Forse sono stata un'alunna fortunata. Nessuno dei miei insegnanti mi ha fatto odiare le lettura. E le liste di libri da acquistare sono state la mia prima grande occasione per spiccare il salto di qualità, dalle letture commerciali a quelle senza tempo. Potrei assegnare una lista per ogni estate e scandire con un pizzico di nostalgia la mia maturazione di lettrice.
Oggi, da prof/lettrice, alle mie liste di libri sulla lavagna non rinuncio. 
Certo, rinuncio all'assegnazione di riassunti e di esercizi di comprensione. 
Incentivo la sottolineatura selvaggia, la riscrittura di certi passaggi, l'uso della fantasia. 
E allargo il canone, ovviamente. 
Porto agli alunni la mia storia di lettrice e mi aspetto da loro che facciano lo stesso. 
Intrecciare le esperienze di lettura è l'unica didattica del libro che conosco, e funziona.



Molte scuole fanno grandi cose con i libri e i progetti lettura, non nascondiamolo!





martedì 22 luglio 2014

Le derive della comunicazione e il pensiero critico

Come si può insegnare a un adolescente il pensiero critico? Non con una ricetta.
E infatti non presento qui elenchi puntati e soluzioni. Presento problemi.
Romano Luperini, qualche anno fa, suggeriva di realizzare in classe una comunità ermeneutica[1]. Non so perché, ma questa idea mi ha sempre affascinato. Di fronte a un testo anche molto antico, bisognerebbe sempre e comunque cercare uno spunto di attualizzazione. Con questa operazione non si intende, certo, manipolare il senso di un’opera leggendola “come piace a me”, ma trovare l’intersezione tra essa e la mia vita di ragazzo, di adulto, di genitore o prof. E se non c’è, capirne il motivo, istituire un confronto. Rifiutare un classico si può, ma solo dopo averne compreso il messaggio e averlo considerato altro rispetto ai propri valori, al proprio punto di vista… non certo rispetto alla propria opinione, volatile surrogato del punto di vista, frutto di mode e impulsi.
Pensiamo alle nostre esperienze all’Esame di Stato, al senso di frustrazione provato di fronte a slogan memorizzati e non appresi, non discussi, non sottoposti al vaglio della prova. Spesso puntiamo al minimo come insegnanti (- purché parli!!), ci limitiamo consapevoli di limitarci. Ma di chi sono questi limiti? Degli alunni? Nostri? Della scuola così come la stanno riducendo? Della società tutta? La tentazione che ho è di rispondere: la terza e la quarta. È colpa loro, io non c’entro.
Sulle altrui responsabilità si può fare poco, però. Io cerco soluzioni che mettano in gioco, in primo luogo, la mia professionalità e la mia responsabilità di docente, perciò mi piacerebbe confrontarmi con altri colleghi di ogni specializzazione e livello.
Certo, se si taglia sulla filosofia io mi preoccupo, ma anche sulla storia dell’arte, sulla musica, sul diritto, su un INTERO anno di scuola! Se si taglia sulla scuola mi preoccupo. Perché i tempi di formazione del pensiero critico non solo quelli lampo con cui esce il nuovo modello di smart-phone. E neppure quelli con cui nascono e muoiono le band giovanili. O con cui cambiano i governi.



Siamo nel mezzo di un costante flusso di notizie e informazioni che i media tradizionali e i nuovi media veicolano giorno e notte, simultaneamente. Di fronte a questo scenario la scuola non può restare inerte, ma deve formare i ragazzi, oggi più che mai, alla lettura critica. 
Saper leggere e attribuire un senso al testo può sembrare operazione ovvia, ma di fatto il diffuso analfabetismo di ritorno dimostra come tale capacità si stia riducendo persino tra i professionisti. Riuscire a dare una interpretazione al testo e poi esercitarvi una critica diventa fondamentale per non ritrovarsi inermi di fronte al bombardamento di notizie, spesso tutt'altro che neutre, cui siamo sottoposti. 
I giovani nelle scuole devono assumere consapevolezza dei meccanismi della comunicazione, soprattutto dei loro aspetti inconsci e sotterranei. Non è casuale, per esempio, che la multimedialità più che notizie, diffonda emozioni sfruttando con sapienza l'emotività, la suscettibilità collettiva. L'emotività infatti si attiva nell'immediatezza, lasciando pertanto estromessa la ragione critica che presuppone distanza e distacco. 
Quando controllo la sequenza di notizie che scorre sulla mia Home-page di Facebook o di Twitter con frequenza impressionante mi imbatto in notizie scientificamente infondate, sparate a salve con toni messianici o complottisti, bufale più o meno evidenti che si mescolano ad articoli seri, di peso (e comunque in formato pillola), finiti chissà come nel calderone Social. E a postare questo amalgama imbarazzante di fandonie e fallacie siamo anche noi adulti.


Coloro che controllano i media sono oggi i veri detentori del potere (lo sappiamo!); essi padroneggiano i flussi delle informazioni esercitando un’ influenza capillare, scarsamente arginabile. Le facoltà che si occupano di comunicazione e marketing suscitano da un po’ di anni una grande attrazione presso i giovani alle prese con l’orientamento post-scolastico. Eppure, a scuola, la comunicazione è snobbata, è fuori dall’interesse della didattica; i nostri alunni sono, perciò, lasciati in balia di quanti tali meccanismi li dominano.
Al di là dei ragionamenti iperbolici e degli scenari apocalittici che ogni tanto qualcuno addita (infastidendoci…), la via di fuga è data dalla critica, dalla capacità di giudizio cui una accurata formazione dovrebbe puntare. È necessario limitare il potere dei manipolatori professione, di quanti sanno orientare l'opinione pubblica, diffondere mode e tendenze, appiattendo i punti di vista e la divergenza. E per una volta, voglio pensare in grande e presumere che sia questo il mio compito di insegnante.
Come?
Non è semplice nemmeno per me - conformista piuttosto spesso-  esercitare l'arte della divergenza, perché essa produce negli uomini, predisposti per natura alla aggregazione e alla condivisione, un senso di disorientamento e di vulnerabilità. E se ciò è vero per gli adulti, ancor più appare tra gli adolescenti, maggiormente esposti ai rischi dell’omologazione a causa della loro continua ricerca di punti di riferimento. I ragazzi tendono, infatti, a condividere atteggiamenti, stili, abitudini, linguaggi, modi di sentire e di vedere. Il pericolo nasce da quanti sanno sfruttare abilmente questi bisogni. Meccanismi psicologici precisi possono orientarli e suggestionarli senza che se ne accorgano. 
Di qui la necessità di puntare l'attenzione sulla meta- comunicazione, una sfida che la scuola deve accogliere al più presto, senza snobismi di sorta.
E deve puntare sulla creatività, altra parolaccia che suscita in molti di noi l’orticaria. Se non richiedesse rigore, metodo e sacrificio (di gramsciana memoria) la scuola rischierebbe di diventare sempre più lo zimbello della cultura, se non impererà ad accettare e ad allenare alla divergenza, l’istruzione si limiterà alla perpetuazione di auctoritates libresche malamente assorbite, agli assiomi indiscutibili non tanto per statuto, quanto per pigrizia, all’applicazione di regole….insomma a tutta quella patina grigiastra di imparaticcio che molti si scrollano di dosso una volta fuori, gettando dalla finestra indistintamente tutto quanto hanno appreso a scuola (l’inezia e il sublime, il cavillo e la scintilla, il fondamento e l’ammennicolo).

Dunque, meta-comunicazione, creatività, critica, divergenza = sfida, ambizione, traguardo.
A questo scopo non possono concorrere solo i docenti di lettere, come spesso accade, solo perché lo consentono alcuni spiragli del programma da svolgere (eh sì, i programmi esistono ancora, domandatelo ai commissari dell’Esame di Stato quando, nel fatidico Documento del 15 maggio, non trovano qualche contenuto, a loro dire imprescindibile!!). A loro spetta il compito di rilanciare la lettura e l'amore per la lettura, il testo, l'ermeneutica come chiave per l'esercizio critico, ma da soli rischierebbero di chiudersi alla modernità demonizzandola o mitizzandola. È necessario, quindi, anche l'apporto dei docenti delle discipline non umanistiche e di chi non si occupa di scuola ma di ricerca: essi hanno il compito (dovere!) di divulgare le loro scoperte, di spiegare il funzionamento delle macchine e degli strumenti (ormai sempre più sofisticati) che costituiscono la cifra e il paesaggio della nostra quotidianità e di fronte alle quali ci limitiamo ad essere passivi fruitori ignorandone del tutto le strutture e i meccanismi. Anche a loro si chiede di uscire dalla roccaforte dei laboratori e di acquisire una vocazione multidisciplinare. Fondendo i saperi si educano cittadini consapevoli, capaci di rispondere efficacemente all'attacco dei manipolatori, sia che lavorino per il mercato, sia che lavorino per la politica, sia che lavorino per narcisistiche pulsioni di auto-affermazione.




[1] ultima edizione: Insegnare letteratura oggi, Romano Luperini, Lecce, Manni editore 2013

mercoledì 16 luglio 2014

Esercizi di stile

Si può insegnare lo stile?
Abbiamo assodato che un docente non può prescindere dall'insegnamento di un italiano, prima di tutto, corretto. Il problema che si pone adesso è come passare al livello successivo: insegnare una lingua originale, diversa da quella degli altri, efficace e, perché no, bella. In una parola, insegnare lo stile: nei nostri programmi, uno sconosciuto!

Lo spunto di riflessione parte da due input incrociati: un ricordo che affonda nei tempi confusi e rocamboleschi della SSIS (Scuola di Specializzazione Insegnamento nella Secondaria) e una lettura che, da sempre, mi galvanizza: Esercizi di stile (Exercises de style) di Raymond Queneau, traduzione italiana di Umberto Eco (una bella sfida per lui!), ovvero la riscrittura in 99 varianti stilistiche di un banalissimo episodio di viaggio in tram nell’ora di punta.
Il problema
Quando correggevo un compito di Italiano (che fosse il vecchio tema o un saggio breve/articolo di giornale, pagine di diario o lettera a qualcuno) una voce della griglia di valutazione adottata dal Dipartimento di Lettere del Liceo in cui insegnavo era “originalità della rielaborazione personale”. Bisognava intendere l'originalità sia in merito al taglio utilizzato nella trattazione dell’argomento, sia in relazione allo stile di scrittura, un'entità, invero, assai sfuggente che, però, ci dava prova della voce peculiare di ciascun alunno, della sua impronta caratteristica. A dirla tutta, il limite di questo indicatore era nella mia incapacità di spiegare ai ragazzi quale fosse l’optimum senza virare nel giudizio soggettivo. Perché, alla fine, il messaggio che passava era: “Prof, a lei non  piace come scrivo” e quindi che fosse una questione di gusti personali.
Ovviamente, mi ritrovavo ad assegnare punti nella griglia quando intravedevo uno stile individuale definito o un abbozzo di ricerca in tal senso. Un guizzo. Che però non comprometteva la comprensione del testo, anzi la migliorava.
La domanda che spesso mi sono posta di fronte a certi elaborati privi di errori, ma nel complesso un po’ grigi, opachi, corretti contenutisticamente, pertinenti, magari anche ricchi di idee, eppure estremamente noiosi è: “Si può insegnare a un alunno lo stile? Quale? E come?”
Se il concetto di registro[1] è entrato nelle nostre attività didattiche già da qualche anno e i libri di testo in adozione (che siano i fascicoli destinati alla didattica della scrittura in uso nel triennio e finalizzati alla preparazione della prima prova scritta all’Esame di Stato, che sia la stessa antologia in uso nella Secondaria di Primo Grado e nel biennio della Secondaria di Secondo, che siano appendici al manuale di Grammatica) se ne occupano diffusamente con un corredo più o meno interessante di esercizi, sullo stile, invece, si dice e si fa ben poco. Perché sembra un problema da scuola di scrittura, un problema per aspiranti scrittori, non per studenti in età dell’obbligo.
Eppure, mi ci metto di picca. 
Se dobbiamo valutare l’originalità di un compito (lo dice la griglia!), allora dobbiamo insegnare il paradosso - e cioè come essere originali.
Lo stile affonda le sue radici nella soggettività. È il modo in cui il parlante si serve dello strumento linguistico, è espressione di una personalità che si manifesta nell'accostamento delle parole tra loro, nella strutturazione delle frasi, nella scelta di un vocabolo di fronte alla rosa dei possibili. Ogni uomo teoricamente dovrebbe avere un suo stile personale (e questo è vero anche nel parlato) ma molto spesso ciò non si vede. La lingua, talvolta, viene utilizzata in modo standard, senza alcun effetto marcato, senza scarti rispettando il cosiddetto ordine normale della frase “SOGGETTO, PREDICATO, COMPLEMENTO OGGETTO, ESPANSIONI ULTERIORI” senza figure retoriche, utilizzando vocaboli medi (non curvato verso il basso né verso l’alto) con significato univoco. È questa la lingua neutra che ci aspettiamo, per esempio, da una relazione scientifica, da un inventario. Agli antipodi si colloca, invece, ciò che ci aspettiamo dalla lingua letteraria, poetica.
I nostri alunni più diligenti quando imparano a scrivere e si esercitano nella produzione di testi dal carattere personale, spesso, mancano di uno stile, perché lo stile è scarto, deviazione dall’ordinario, e molti di loro non hanno ancora sviluppato una personalità tale da eludere, a cuor leggero, la sequenza soggetto-predicato-complemento rischiando magari di sbagliare. Per fare emergere il proprio stile individuale, a un certo punto, ci vuole un atto di coraggio, perché nella ricerca di una personalità linguistica si può peccare di eccesso d’espressività, si può forzare troppo la sintassi e piombare negli anacoluti, si può beccare un vocabolo musicalmente bellissimo, ma di fatto poco attinente al senso da comunicare, si possono mescolare troppo arditamente registri diversi e dissonanti, senza però essere Carlo Emilio Gadda, si possono ricercare effetti retorici maldestri e quella che allo studente può sembrare un’anafora, a giudizio del professore diventa una ripetizione cacofonica. E allora, per molti, meglio la scelta di un non-stile. Un porto tranquillo.

Proposta didattica: riscritture e varianti stilistiche
La volpe e il corvo - Esopo (illustrazione)
Interrogandomi spesso su come insegnare ai ragazzi a cercare uno stile personale, ho trovato ispirazione in un esercizio che sperimentai alla SSIS con i miei colleghi. Vorrei riportarvi la bibliografia completa, ma non ce l’ho, perché non ci fu data. Ricordo solo che l’iniziativa partì dal Prof. Sebastio dell’Università di Bari, un individuo mastodontico che ci raccomandava sempre di entrare in classe con un libro sotto il braccio e non con una rivista di moda o con la settimana enigmistica (...questione di stile, appunto).
La proposta, che vi giro, si rivolge agli studenti del secondo anno del Biennio (ma volendo, con opportune semplificazioni si può adattare anche alla Terza Media). Lo scopo è riscrivere un testo poco connotato stilisticamente imitando lo stile di più autori tra loro molto diversi.
In primo luogo si distribuisce agli alunni un testo non marcato, stile-zero. Va bene una favola di Fedro o di Esopo, scelta fra le meno retoricamente agghindate. La si legge e si commentano le caratteristiche della scrittura (ordine della frase, lunghezza dei periodi, scelta dei vocaboli, presenza di aggettivi). Poi si propongono dei modelli (autorevoli) di scrittura. Non si può non partire da Manzoni. Lo stile manzoniano è sontuoso, pieno di armonia, ricco di aggettivazione: un concerto di subordinate che, tuttavia, non percepiamo ridondanti. Leggiamo l’incipit famoso e noto agli studenti Quel ramo del lago di Como …quanto basta, perché se ne ascolti il ritmo. Lo analizziamo insieme ai ragazzi individuandone le caratteristiche precipue. Rileggiamo uno o più passi. Quindi invitiamo i ragazzi a riscrivere la favola con lo stile manzoniano, magari procediamo insieme per il primo rigo, poi li lasciamo soli. Dovrebbero disfarsi della paratassi, espandere alcuni concetti, aggiungere dettagli, relative, esplicative e (utopia?) cercare un ritmo lento, modificare alcuni vocaboli sostituendoli con sinonimi leggermente più aulici o poetici.
Lo step successivo sarà un shock stilistico e temporale. Si utilizzerà un autore contemporaneo, scelto fra quelli più lontani dallo stile manzoniano e abbastanza vicini alla lingua dei ragazzi (Stefano Benni, Chiara Gamberale, Giuseppe Culicchia, Aldo Nove, Federico Moccia ecc.), si leggeranno passi significativi (ipotassi, frasi ellittiche, gergo giovanile, metafore che affondano nella cultura POP) e li si analizzeranno confrontandoli con lo stile manzoniano, evidenziando le differenze. Quindi si procederà con la nuova riscrittura della favola.
I risultati saranno diversi. Li correggeremo tutti. A casa, a scuola, purché lo si faccia. Il feed-back preciso è importante.
Nello step successivo il gioco con la lingua si farà più ardito.
Si propone ai ragazzi il libro di Queneau, Esercizi di stile, spiegando che esso si basa sullo stesso meccanismo di riscrittura stilistica che la classe ha appena sperimentato in due varianti (stile manzoniano e stile anti-manzoniano). Se ne legge l’episodio principale e due o tre varianti  a caso. Si fa circolare il libro fra gli alunni, assegnando a ciascuno la lettura ad alta voce di una delle 99 varianti. Quindi si richiedono altre riscritture della favola di partenza utilizzando come modello quelle di Queneau (riscrittura del brano con soli dati olfattivi; riscrittura poetica; riscrittura con colori; riscrittura con turpiloquio; riscrittura con tautogramma).
Le esperienze svolte con gli alunni sono state, per quel che mi riguarda, decisamente più stimolanti e costruttive di quella svolta con i colleghi della SSIS. Noi eravamo prevenuti, bloccati da timidezza e ansia da prestazione, scettici, convinti che il laboratorio di scrittura fosse una perdita di tempo, presuntuosi e bla bla bla. Gli alunni, invece, si mettono in gioco e (molti di loro) non hanno paura a esercitare la propria creatività. Sono altresì convinti, più di noi adulti, che saper scrivere non è (solo) una dote, ma una competenza da acquisire e migliorare. E soprattutto non hanno deciso che della scrittura si possa fare a meno.
Limiti
Questi esercizi non producono spontaneamente uno stile personale nella scrittura degli alunni, né capacità di imitare alla perfezione lo stile di un autore. Richiedono tempo. Costanza. Servono però a parlare di stile, a spiegare che cos’è, a mettere a fuoco un concetto difficile e spesso controverso anche per gli stessi linguisti (perché non si può trovare una regolarità, quando si parla di stile, quindi sfugge anche la teoria), promuovono una ricerca in tal senso, un impegno.
Se torno indietro alla mia esperienza di studentessa ricordo nitidamente la lettura in classe di Se una notte d’inverno un viaggiatore. La professoressa si fermava spesso a commentare alcune scelte di Calvino, per esempio l’accumulazione (una caratteristica che tornava con frequenza). E poi, al momento del compito in classe, ci diceva: “Ricordate le tecniche di Calvino, che ci piacciono tanto? Provate a farle vostre”. E si raccoglieva l’input, più o meno bene.
Imitando le voci degli autori letti, pian piano alcuni di noi hanno maturato una voce propria, col tempo sempre più definita.












[1] Sintetizzando all’osso “adattare il modo di parlare, di scrivere, il livello espressivo alla situazione comunicativa” da www.treccani.it

lunedì 7 luglio 2014

L'Italiano inamidato che si apprende a scuola



  Lo scorso autunno ho acquistato “La lingua batte dove il dente duole” (ed. Laterza, Novembre 2013, euro 14,00). Si tratta un vivacissimo dialogo tra Andrea Camilleri e Tullio De Mauro sulla forza espressiva del dialetto, sullo stato di salute dell’Italiano, sul cattivo uso delle parole da parte dei mezzi di comunicazione di massa (- sempre loro, sigh!)
Fra i numerosi spunti che ho ritenuto interessanti, voglio condividere con voi alcune riflessioni scaturite, soprattutto, dalla lettura del terzo capitolo, in cui i due autori si interrogano sul ruolo della scuola nell’insegnamento dell’Italiano e sul progressivo impoverimento del dialetto, privo ormai di una cultura tradizionale da cui mutuare lemmi, espressioni, proverbi.
Bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta
 (Don Milani)
Premetto che non sono mai stata un’appassionata di dialetto locale, sia perché appartengo a una generazione che non lo ha conosciuto in salute e che è oggi incapace di parlarlo, di pronunciarlo bene o, spesso, persino di comprenderlo, sia perché lo ritengo una barriera culturale per quanti non hanno avuto e non avranno la formazione di Camilleri e potrebbero utilizzarlo come forma esclusiva di comunicazione. Premetto che il mio apprendimento dell’Italiano è stato, comunque, spesso rallentato dai vezzi e dalle abitudini linguistiche regionali che fioccano di intercalari, di ridondanze, di modi di dire presi in prestito dal dialetto ma che dialetto, in senso stretto, non sono perché diffusi in una versione tradotta, italianizzata. Premetto, inoltre, che nella mia comunicazione quotidiana, compresa quella formale di docente in cattedra, una buona parte del messaggio da veicolare è affidato ai gesti e a una generosa mimica facciale. Premetto, infine, che da adolescente, pur studiando in un liceo classico, disponevo di un mio personale vocabolario privato che spesso annoverava interiezioni e imprecazioni non canonizzate da alcuno zingarelli, e spesso tuttora affioranti quando parlo.
Per tutte queste ragioni, leggendo le considerazioni di Camilleri e De Mauro sulla battaglia contro il dialetto da parte della scuola, mi sono sentita chiamata in causa, anche perché, quest’anno, per la prima volta, ho insegnato formalmente grammatica a studenti in età dell’obbligo, dedicando tre ore settimanali alla riflessione sulla lingua, all’apprendimento delle sue strutture, alla correzione di esercizi perfettamente corrispondenti al segmento linguistico in esame.
 Il titolo del capitolo incriminato, Un italiano in cui non si dice mai “dare” , è già una bella scossa! Si allude, infatti, all’italiano stantio che, poco dopo, De Mauro definirà inamidato, cioè tirato a lucido e rigido. L’italiano della scuola, insomma. Quello dei manuali di grammatica che scoppiano di esempi garbati oltre che corretti, quello delle correzioni puntualmente apportate da noi docenti ai temi degli alunni, quando deragliano dal binario della lingua standard plus - mio conio, questo, che sta ad indicare la versione ancor più ingrigita e cristallizzata dell’italiano standard. Insomma, una sorta di lingua morta, inesistente nella realtà e, di fatto, sganciata dalle urgenze della comunicazione viva, reale.
Gli esempi che i due autori citano sono piuttosto noti: la scuola predilige la parola viso alla più materica faccia, egli, ella a lui e lei e ingaggia una vera e propria guerra contro i verbi fare e dare sistematicamente sostituiti da una fiumana di sinonimi più nobili e più specifici: “effettuare” “eseguire” “porgere” “offrire” ecc. Si mostra, con l’analisi di alcune correzioni apportate a temi  di studenti diversi per età e regione, che quasi sempre, i docenti tendono a sacrificare l’espressione più vicina e più compromessa col dialetto rispetto alla più nobile, di natura più libresca o più burocratica.
 Coincidenze
Proprio in quei giorni mi trovavo a concludere un ciclo di lezioni sul verbo. Il manuale in adozione, alla fine di ogni capitolo, così come aveva fatto per i precedenti argomenti, chiudeva l’unità didattica con una sezione di approfondimento lessicale. In questo caso, la scheda verteva – per l’appunto!- su come evitare l’uso (attenzione: non solo nello scritto, anche nel parlato) del verbo-factotum  fare. Seguiva una pioggia di esempi, mille sinonimi, tutti puntualmente illustrati, con cui sostituire il meschinello. Alcuni, in verità, erano sinonimi pignoli più che precisi e talmente poco espressivi che quasi mi pareva sentirli, De Mauro e Camilleri, ridere a crepapelle e farsi beffe dei poveri autori del manuale!
Eppure. I miei alunni avevano bisogno di quell’approfondimento lessicale. Ne avevano bisogno, perché, in prima media, nei loro temi, fare, dare, cosa si spalmano dappertutto senza badare alle ripetizioni e lasciando, a prescindere, una sensazione di vago, di impreciso, di non-detto, di scorretto. Perché il loro vocabolario attivo è così ristretto da impedire sovente la comunicazione, anche immediata, di stati d’animo, urgenze, richieste, giudizi. Perché, per superare uno standard , bisogna prima acquisirlo, vivo o morto che sia.
Ho, dunque, contribuito anch’io a inamidare la lingua?
Forse, ma è un tributo che dovevo pagare. “Ho svolto i compiti dalle tre alle cinque del pomeriggio: ho eseguito un riassunto e una parafrasi”, scrive con diligenza Maria Vittoria. Io so che nella sua vita reale, Maria Vittoria, nel primo pomeriggio, quei compiti li ha FATTI, magari svogliatamente, con un occhio al televisore e uno a whatsapp, e so anche che eseguire una qualsivoglia operazione è COSA più triste e grigia che FARLA, tuttavia se la scuola, pur di salvaguardare l’espressività di fare, dare, avere, non mettesse in circolazione i loro numerosissimi sostituti (con tutta la pignoleria delle maestre di una volta!) farebbe il gioco della messaggeria breve che, per potenziare l’espressività, riduce parole e lettere, e le sostituisce con faccine universali o con suoni bruti. E allora, ben venga l’amido della lingua scolastica, almeno in prima media. Ma anche in seconda. Un po’ meno in terza. Ci sarà tempo (dovrà esserci!-  la Secondaria di Secondo Grado non dovrà mancare questo appuntamento) per acquisire una lingua pirotecnica, robusta. Magari leggendo Gadda, Tondelli, Fenoglio, Sanguineti…

Problemi 
Un bambino non poteva scrivere "gli uomini si arrabbiano", perché,
annotava l'insegnante,"si arrabbiano i cani, gli uomini si indignano"
(T. De Mauro)
Confesso, che nella prassi non è così semplice. Che correggere un elaborato scritto è, per me, una guerra fra istanze diverse, quella standardizzante che tutto corregge e appiana, e quella espressiva che cerca originalità nella trasgressione. Non parlo di quei compiti che grondano errori ortografici, grammaticali, sintattici e così via. Lì è facile. Il problema nasce quando la prof. pretende di sindacare sullo stile, sulla lingua di un elaborato, su certe scelte lessicali: un problema che si manifestava soprattutto nella Secondaria di Secondo Grado e soprattutto in presenza di alunni ad alto grado di creatività.
Mi spiego: se io assegno delle pagine di diario, la lettera a un amico, un articolo di giornale per un pubblico di coetanei e quindi sto autorizzando l’alunno all’uso di un registro informale quanto e cosa potrò accettare? Fino a che punto tollererò che i miei studenti forzino gli standard della lingua per ottenere l’espressività che mostrano quando parlano tra loro? E come mi comporto di fronte all’anacoluto? E di fronte alle dislocazioni a sinistra, a destra ormai proprie di giornali, libri, discussioni? Se assegno un racconto e chiedo di essere linguisticamente originali, se chiedo di inventare, se chiedo di giocare con la lingua, come farò a spiegare a Maria Vittoria che “Ho svolto i compiti dalle tre alle cinque del pomeriggio: ho eseguito un riassunto e una parafrasi” non va più bene?
Sdoganare il  MA PERÒ, che è ancora un tabù? E quando?
La partita che giochiamo quando correggiamo un elaborato scritto ha a che fare con l’eterna lotta tra la lingua d’uso e la grammatica, tra ciò che muta e ciò che regola. E noi docenti, da che parte stiamo? Per ora, noi siamo la regola, l’amido, il respiro corto. I libri che leggeranno, gli autori che ameranno, che noi consiglieremo, dovranno essere la trasgressione, la lunga gittata, la deviazione, il deragliamento, apprezzabili nel loro valore SOLO DOPO che quelle regole costrittive saranno state apprese e SE saranno state apprese.




mercoledì 2 luglio 2014

Come nasce un giovane lettore



"Un libro che ha interessato ed emozionato un giovane lettore non è mai solamente qualcosa che ha imparato, ma si trasforma in un patrimonio identitario perché diviene suo, e grazie alla capacità di criticarlo e ri-raccontarlo egli, insieme alla storia, presenta se stesso perché chi conosce e apprezza un testo lo usa come espediente comparativo e associativo di comprensione e di giudizio."
Ho trascritto questa frase qualche anno fa in un taccuino, scioccamente, senza  annotarne il riferimento bibliografico preciso, tutta presa com'’ero dall’'entusiasmo di condividerlo, di farlo mio.
Lo ritrovo oggi e subito incomincio a pensare… ai miei alunni.  Mi domando se, in questi anni, io, lettrice compulsiva e prof. logorroica di Italiano, sia riuscita a creare un incontro speciale tra qualcuno dei miei studenti e un libro, fra quelli suggeriti, citati per caso, prestati, perduti, dedicati, lodati, esecrati, letti in classe collettivamente o a casa in solitario. Non so dirlo, ma so che molti di loro sono diventati lettori e perciò, suppongo, che a un certo punto, terminata una lettura, ci sia stato il momento in cui si siano detti: “ "Ne voglio ancora!”"
Dal canto mio, non ho mai imposto una lettura, un romanzo, un poeta, riduzioni per ragazzi o opere edificanti - nemmeno quando i genitori me lo chiedevano esplicitamente. Non ho mai assegnato riassunti, recensioni obbligatorie, esercizi.

l'infinito disordine della lettura compulsiva
La lettura è una cosa seria, non è una prova INVALSI. Al più, ho chiesto loro un giudizio o quale autore avrebbero consigliato ai compagni, a chi e perché. Ho suggerito titoli, ho mostrato spesso i romanzi che stavo leggendo a scuola, li ho messi sulla cattedra con i loro segnalibri a vista, spesso ho lasciato che liberamente i miei alunni si incuriosissero di fronte a titoli strani o copertine sgargianti, e mi facessero domande. Ho fatto circolare romanzi presi in prestito, stabilendo turni e trasformando la visita in biblioteca in un appuntamento (atteso, se non altro per la passeggiata!) del giovedì. Li ho messi in palio come premio per attività ludico/didattiche a cui le mie classi hanno partecipato.
Andando indietro nel tempo, nel corso della mia esperienza in Secondaria di Secondo Grado, non ho mai perso un incontro con l’'autore, un progetto lettura -  prima di tutto come lettrice, poi come docente. Lettrice fra lettori, ho discusso con i miei alunni che, talvolta, apprezzavano autori che io non gradivo e viceversa.
Progetto Lettura "Spesso chi Legge", Liceo Tarantino, Gravina in Puglia,
incontro con Andrea Molesini 17/03/2012.
Il fatto è che un libro, suo malgrado, è sempre un potente strumento cognitivo. E avvicinarlo ai giovani era così importante che non si potevano commettere errori grossolani, come una somministrazione a mo’' di medicina o una gara del chi finisse prima o di chi ne avesse esposto meglio la trama. Perché i ragazzi avrebbero scelto la scorciatoia: il bignami, il riassunto in rete, tutto fuorché la lettura integrale, diretta. Volevo invece che spuntassero quanti non avrebbero potuto fare a meno di sottolineare un passo per sentirlo proprio, di scribacchiare delle frasi proprie a margine, di desiderarne uno nuovo come regalo. Volevo che sentissero il bisogno di leggere dei passi ad alta voce, che mettessero in moto pensieri nuovi e imprevisti, che nascessero delle domande, dei confronti tra la propria storia e quelle narrate, che fossero lenti, non per pigrizia o “mancanza di tempo” ma per assaporare meglio scritture e fantasie.
Ho messo davanti ai loro occhi la mia esperienza di lettrice e le mie emozioni. Prima di tutto per condividerle, poi per aiutare quanti avrebbero voluto farle proprie. Qualche volta è andata bene. Qualche altra benissimo.

Come nasce un lettore
Si parte da una storia, che in genere racconto in classe. Il romanzo del cuore, il primo.  Agli alunni formulo una richiesta precisa (e qui la giro a voi docenti!)
Vorrei invitarvi, se ne avrete tempo e voglia, a raccontare quale sia stato un libro che nella vostra infanzia o adolescenza abbia rappresentato un punto di riferimento per voi e per il vostro immaginario. Bastano anche poche parole. Io lo faccio qui di seguito. Mettere in comune esperienze crea vicinanza. La narrazione è, poi, già in sé un piccolo passo verso il libro.
L’'esempio, tra i tanti, che potrei citare è “Alice nel paese delle meraviglie” che ho conosciuto, dapprima, nella dimensione dineyana di cartone animato un po'’ edulcorato e, poi, nell’'originale di Lewis Carroll. 


La passione mai discussa nei confronti di questo classico si esprimeva, non solo nella continua ricerca di nuove edizioni, ma anche nei giochi di simulazione, nelle prove di riscrittura, nelle continue drammatizzazioni che mettevo in atto con le amiche, i cugini o anche da sola.
L’'aspetto che più mi affascinava era quello delle metamorfosi, l’idea che bastasse mangiare o bere qualcosa per cambiare aspetto o dimensione. Mi piaceva il senso di mistero che aleggiava intorno agli oggetti e mi piaceva l’'aria furbesca delle etichette che esibivano i loro  “mangiami!” o “bevimi”!: mi sembravano al contempo pericolosi e suadenti inviti alla trasgressione. Attribuivo a quelle boccette l’'odore di canfora che sentivo attorno ai vecchi cosmetici di mia nonna, mescolati ai flaconi di medicine mezzo vuotate e tutte a me interdette, che talora maneggiavo di nascosto.
Ancora più affascinante era l'idea del labirinto. Amavo fissare per ore una illustrazione in cui la bionda Alice restava perplessa e vagamente spaventata di fronte a un bosco rigoglioso, illuminato dalla luce della luna, il cui spicchio, così ben disegnato, era in realtà il sorriso di un gatto beffardo. Sul tronco degli alberi che si perdevano nella notturna prospettiva, si moltiplicavano cartelli d’i ogni dimensione e colore, con indicazioni confuse: “Di qui”, “Di là”, “Laggiù”, “Da quella parte” e così via. Mi emozionava il mistero che la parola scritta sapeva evocare, soprattutto perché al contempo vaga e perentoria. Provavo a fingere nella mente ciascuna di quelle direzioni, a immaginare che la protagonista scegliesse sentieri diversi da quelli imposti dalla storia e quindi facesse nuovi incontri e vivesse nuove avventure. Così non solo potevo sostituirmi a lei, ma anche e soprattutto al suo creatore. Dilatavo la storia oltre i suoi confini, in modo che non finisse mai (suggestione che mi fece poi impazzire con “La storia infinita” di M.Ende)
Il romanzo di Carroll è stato un potente strumento cognitivo per me: ha stimolato la fantasia, le capacità narrative, la capacità di passare rapidamente dal linguaggio letterario a quello iconico a quello fotografico, ha arricchito il mio lessico.
Tuttora provo un certo stordimento davanti alla parola MENSOLA, incontrata per la prima volta nel romanzo e in una illustrazione in cui Alice, cadendo dolcemente nel vuoto nella tana del coniglio, si sporgeva ad osservare le mensole su cui ordinatamente erano stipati degli oggetti, tra cui un barattolo di marmellata d'’arance. Così, con altrettanto stupore, io cercavo mensole dappertutto: a casa mia ve ne erano alcune nel bagno e mi piacevano molto perché erano di vetro verde. Ne trovavo qualcuna a casa di mia nonna, di legno e piene di immaginette di santi e madonne; bianche laccate, nella cameretta di una mia compagna di scuola. Le mensole assumevano ai miei occhi un valore fantastico, quasi fossero un ritaglio di meraviglioso nella mia realtà quotidiana, e forse, mi aspettavo anch’'io di trovarvi un vasetto di marmellata d’'arance pronto a trasformarmi in qualcosa di diverso. Stessa fascinazione da parte di altre parole: SONAGLIO, MERIGGIO, SCACCHIERA, MELASSA, BURRO. Ciascuna di esse, si caricava di molti più significati di quelli riportati dal dizionario. Mi apriva la mente, mi metteva in moto pensieri e fantasie.
Ho apprezzato le filastrocche e i giochi di parole, presenti nel testo, solo crescendo. Per capire i non- sense ho dovuto diventare adulta. Essi solleticavano curiosità e bisogni nuovi: giocare con la lingua, con la logica, con le parole della tradizione mandate a memoria. Nelle edizioni tradotte di cui ero in possesso si giocava con alcune poesie di Pascoli e Carducci, scelte fra quelle più fastidiose nella loro musicalità da filastrocche. Dalla lettura in lingua originale ho ricavato, invece, la parodia a poesie che purtroppo non conoscevo e che mi era difficile apprezzare.
Un articolo apparso qualche anno fa sul Venerdì di Repubblica, contemporaneamente all’'uscita del film di Tim Burton, diceva che Alice e il suo mondo bizzarro suscitano da sempre una antipatia innata nei bambini, che in genere non amano questo classico, perché la protagonista rappresenterebbe il principio regolatore e ordinatore che si muove attraverso la follia senza mai perdere l’'equilibrio, senza mai lasciarsi sedurre. Allo stesso modo gli altri personaggi susciterebbero diffidenza perché, con i loro giochi verbali e la loro logica capovolta, rappresentano il costante pericolo di impazzire, di perdersi nei meandri dell’'irrazionale. L'’articolo metteva, inoltre, in evidenza una continua e gratuita crudeltà serpeggiante pressoché in tutti gli episodi, ma non me ne accorgevo, in verità, abituata, com’e ero, al sadismo di ben altre storie che i cartoni animati e le fiabe classiche ci propinavano.
Ho trovato, tuttavia, interessante l'analisi dell'articolista e mi sono accorta che esiste una certa corrispondenza fra quello che Alice rappresenta e il contenuto di alcuni sogni ricorrenti che facevo soprattutto negli anni dal passaggio dall’' adolescenza all’'età adulta. In particolare, il labirinto, l’'esplorazione di mondi tortuosi e senza via d’uscita, con atteggiamento di curiosità e di angoscia. Proprio come Alice, poiché alla fine il suo mondo di fantasia, all’'apice del pericolo, si rivela essere solo un brutto sogno.
Resta, tuttavia, il fascino profondo che l’'opera continua a suscitare in quanto immagine precisa della mia infanzia.

E adesso tocca a voi!