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Nottola di Minerva o gufo anti-sfiga? La Scolastica, nel suo bagaglio, se li porta entrambi.

venerdì 20 giugno 2014

L'anno di prova.

Non sono ancora una docente di ruolo. Sono in prova. Se non funziono mi buttano via, e con me i miei sette anni di precariato, il pendolarismo, treni autobus benzina, la galleria dei volti, centinaia di studenti che ho accompagnato agli Esami di Stato e riportato sani e salvi a casa dopo gli agghiaccianti viaggi d'istruzione della primavera scolastica. Un'avventura in cui sono entrata da adolescente in ritardo qual ero e da cui sono uscita il primo Settembre scorso, quando il Ministero mi ha concesso il Posto Fisso, agognato traguardo piccolo-borghese che mi arruola, finalmente, nei ranghi della docenza stabile, sottopagata, querula e -a detta di tutti- privilegiata.
Certo, c'è l'anno di prova. E Venerdì 27 sarò giudicata. In attesa del verdetto, con un piede ancora sul baratro di quella precarietà che nemmeno un contratto a tempo indeterminato riuscirà tanto presto a scucirmi di dosso, pubblico la premessa alla mia relazione finale.
Nelle intenzioni, avrebbe dovuto essere un resoconto formale ma, come al solito, sbagliando registro, eludendo la traccia-le aspettative-il senno l'ho trasformata in un rigurgito autobiografico grondante narcisismo, e tuttavia autentico, perché non so copiare e non voglio -non l'ho mai fatto nemmeno a scuola.
Non è mia intenzione fare di questo blog un diario personale, sia chiaro, non sempre almeno. Si consideri questo post la mia presentazione, qualche parola per dirvi chi sono. Poi ci sarà solo la Scolatica, non la severa e rigorosa filosofia medievale, ma il rutilante mondo della scuola 2.0.
Bene, e ora bacchettatemi pure.

Jan Steen, A scuola

"Una relazione finale è sempre un bilancio. Si soppesano successi e sconfitte, si raccolgono cocci e allori. E quand’anche piccoli rimpianti e diffuse stanchezze offuschino per un attimo gli obiettivi raggiunti, resta sempre una soddisfazione grande alla fine di tutto, un senso di pienezza che è dato dalla conclusione, dalla costruzione innalzata a fatica che ci soddisfa e inorgoglisce, dal traguardo che è segno indiscutibile di vittoria, malgrado prove e inevitabili errori. Nella vita di ogni insegnante la fine  dell’anno scolastico è così, è la tappa raggiunta, un punto fermo, una sorta di maturazione che, come ben sa il corridore di una staffetta, non può dirsi mai del tutto esaurita, mai definitiva. 
L’insegnate non smette di formarsi, non conclude. Non smette di mettersi in discussione. Non cessa di ridisegnarsi e ridisegnare le proprie convinzioni. Raggiunge una meta e già si prepara alla successiva.
Quando ho sentito per la prima volta che questo sarebbe stato un anno di formazione ho corrugato la fronte. Supponenza e pigrizia ci fanno pensare che sia superfluo seguire corsi di aggiornamento; pressapochismo e faciloneria suggeriscono che, in fondo, basti un po’ di esperienza in campo; il sentito di dire, la communis opinio danno poi il colpo di grazia: nella scuola tutto cambia (etichette, parole, slogan, paradigmi) perché tutto resti uguale, quindi sembra inutile studiare l’ennesima circolare ministeriale o le nuove indicazioni o quanto la solerte e prolifica inventiva del Ministero abbia diffuso. Poi però si entra in classe e ci si misura col multiforme, complesso, affascinante mondo delle nuove generazioni, ci si immerge in una sfida che non si può sottovalutare perché composta di problemi e di urgenze fatte di carne e sogni, di occhi e mani, di intelligenze e paure, e ci si ritrova sprovvisti di adeguato equipaggiamento. Allora sì, che nel profondo, si matura un bisogno autentico di formazione e la si cerca. Questa è pure la mia storia.
Non basterà un anno di formazione. Chi mi ha preceduto lo sa. 
Insegnando non si cessa mai di imparare e si impara a tutto campo: dai dirigenti, dai colleghi, dai collaboratori, dalle piattaforme, dai documenti ufficiali, dalle riviste specializzate, dalle famiglie, dalla Rete, forse anche dai pranzi improvvisati tra colleghi, in attesa di un collegio o di un incontro di dipartimento. Soprattutto, però, si impara dagli studenti. Dall’alunno che fischia quando tu parli e fischia più forte quando tu più forte urli, all’alunno che marcia trionfalmente nei corridoi mentre cerchi perentoriamente di indurlo a rientrare; dall’alunna preoccupata per un brufolo sulla fronte che si regge un ciuffo di capelli con le mani per coprire il bozzo mentre tu la interroghi sui mari d’Europa e lei resta in equilibrio precario e disperato tra due emergenze altrettanto allarmanti, all’alunno che smanetta con il tablet alla velocità della luce e ti insegna come avviare in fretta un programma sulla LIM; dall’alunno che alza la mano e ti fa la domanda intelligente che aspettavi da giorni, all’alunno che alza la mano e ti fa la domanda geniale che ti spiazza - e ti commuove.

A tutto questo non ero pronta. Ho assorbito come una spugna ciò che  l’anno di prova mi ha offerto. Un bagno di umiltà, un' apertura all'accoglienza senza sconti, un esame che è facilissimo fallire"

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